DSA non riconosciuti nelle narrazioni cliniche del giovane adulto

Dott.ssa Anna Bernardi

Nella stanza di psicoterapia si dà voce a storie differenti scaturite da una molteplicità di contesti di vita.

La richiesta di aiuto che proviene da ragazzi in tarda adolescenza o da giovani adulti si inserisce all’interno di una evoluzione in pieno divenire finalizzata alla definizione e affermazione dell’identità soggettiva. Il terapeuta viene così investito di funzioni integrative, contenitive, di chiarificazione relative a progettualità inespresse e di supporto alle capacità decisionali. È fondamentale per questi pazienti, insieme alla messa a fuoco delle opportunità di sviluppo, la comprensione delle inibizioni e dei traumi subiti per cogliere i nessi fra la propria sofferenza e la complessità della percezione e pressione delle vicende personali.

È confermato da molti studi quanto i vissuti relativi all’apprendimento scolastico possano interferire e condizionare il processo di crescita.

La scuola dovrebbe essere il luogo di sperimentazione positiva di sé, sede di apprezzamento, gratificazione, riconoscimento e conferma in cui ci si espone inevitabilmente al giudizio essendo sottoposti da parte dei docenti a verifiche e valutazioni riguardanti il profitto e il rendimento. Si presenta inoltre come un contesto di appartenenza e di rapporto con i pari entro cui trovare collocazione, ruolo e identità sociale.

Ma cosa succede se nel processo dell’imparare si inseriscono elementi di incertezza, confusione, frustrazione, sensazione di caos, di non comprensione e controllo del nuovo da acquisire?

Nella pratica clinica può accadere che la narrazione del giovane paziente inizi proprio dalle parole “Ho avuto difficoltà a leggere fin dalla prima elementare”, oppure può succedere che la terapia proceda per lungo tempo senza che il tema scuola venga toccato. Poi d’improvviso si sfiora l’argomento e una esitazione, un pianto, un silenzio si riempiono di intensità.

È uno di quei momenti  in cui ci si sta avvicinando a contenuti molto pregnanti. Il paziente può reagire tentando di allontanare in vari modi la sua attenzione e quella del terapeuta da quanto potrebbe emergere o entrare in quel varco che si è creato per permettersi, grazie alla presenza rassicurante di chi gli è accanto nel setting, di vivere la sua sofferenza.

“In classe mi prendevano in giro per le mie difficoltà e io non riuscivo a capire perché le avessi”. Affermazioni come queste sono frequenti  in ragazzi con DSA oggi fra i 20 e i 28 anni, in una popolazione più adulta e tuttora ricorrono in bambini e adolescenti.

Nonostante la legge 170 sui DSA risalga al 2010 e da allora si siano susseguite linee guida, circolari ministeriali, studi, progetti, iniziative, screening, non si è ancora davvero implementata una “cultura” dei DSA: non appare ancora radicata la consapevolezza e l’attenzione nel cogliere lo sforzo e il disagio di chi, affetto da DSA si trova ad affrontare in prima persona le conseguenze del proprio disturbo.

Nel dispiegarsi della psicoterapia quel disagio, che ha radici lontane, si esprime con profonda sofferenza. Si rievoca l’ingresso nella scuola primaria, si prova lo stesso smarrimento, disorientamento, inadeguatezza in un contesto di aspettative inattese che erano rimandate da genitori e insegnanti. Ogni storia è differente dall’altra e dipende da come l’ambiente circostante accoglie tale disagio e dalla varietà di strategie che si mettono in atto per affrontare problemi quotidiani o situazioni più complesse.

Centrale rimane però la sensazione di essere in qualche modo “diverso”. Ogni insuccesso lascia un segno di inferiorità e insicurezza e le conseguenti disapprovazioni implicite o esplicite degli altri vanno ad incidere sulle già presenti difficoltà e soprattutto influenzano la costruzione dell’immagine di sé. Il disagio si mostra allora a più livelli: affettivo, emotivo, relazionale.

Le reazioni comportamentali di fronte alle difficoltà coprono un ampio spettro: opposizione, rifiuto, aggressività, demotivazione, assenze, inibizioni.

La terapia, nel dispiegarsi in una trama in cui sono presenti ansia, sforzo, incomprensione, vergogna, rabbia, frustrazione offre uno spazio privilegiato a tutto questo groviglio talvolta confuso e confondente di percezioni interiori. In ogni racconto di vita si palesano delle priorità. Nel caso dei DSA è chiarire innanzitutto al paziente, là dove non ci sia ancora una diagnosi o se c’è, è stata tardiva e poco approfondita, le caratteristiche del disturbo. Lo spiegare di cosa si tratta, a livello dinamico manda un messaggio fondamentale: “Non è colpa tua!”.

È uno di quei casi in cui la diagnosi assume una funzione liberatoria e permette di ridefinire la rappresentazione di sé in un’altra ottica. E questa cornice di riferimento porterà a ripercorrere le tappe che hanno caratterizzato quel peculiare bambino che si rivede in classe di fronte al compito con la sensazione di non riuscire, di non essere capace, di tradire e deludere, di essere impotente. Emozioni che  hanno generato un modo si essere e di sentire.

Sarà compito della terapia esplorare le diverse aree mentali in cui ancora il giovane fluttua  prima di definire la propria identità.

Si guarderà al Sé infantile, quello in seno alla famiglia, al Sé idealizzato proprio dell’adolescenza e al Sé all’interno del gruppo con una nuova anche se difficile consapevolezza: la dislessia c’è ma si può nominare, definire, conoscere, affrontare, migliorare. Occorre anche conviverci in quanto tende a permanere lungo tutto il corso della vita.

Oggi a livello legislativo esistono norme e interventi attenti e mirati che riguardano i DSA a cui ci si può riferire. Ma ancora più importante è arrivare a considerare il proprio disturbo non una caratteristica carica di negatività bensì come uno dei tanti aspetti della propria personalità da accettare in quel processo di appropriazione della propria realtà psichica che è la sola che permette di approdare all’età adulta.